di Giorgio Gagliardi

martedì 2 ottobre 2018

I nuovi migranti (afrikaner), i Boeri sfuggiti all’assassinio e cacciati dalle loro terre legittime dai neri del Sud Africa, ora sono accolti dalla Russia. Grazie, Russia, che accogli chi è stato derubato dai soliti approfittatori non ignoti che strappano diamanti e oro agli altri. – The New Afrikaner Migrants, the Boers that Have Escaped Murder and Have Been Driven out of their Own Lands by the Black Men in South Africa, Are now Taken in by Russia. Thank You, Russia, for Welcoming Those Who Have Been Robbed by the Usual and not Unknown Profiteers, who Steal Other People’s Diamonds and Gold.

1) Così la Russia accoglie i bianchi perseguitati dai neri
In Sudafrica il clima è sempre più ostile per i discendenti degli europei: Putin offre loro terre da coltivare
FEDERICO CENCI – 6 agosto 2018
Fuga dall’Africa. Ma ad emigrare non sono soltanto i neri, che l’immaginario collettivo identifica come i perseguitati per eccellenza. C’è una minoranza che in Sudafrica subisce indicibili violenze ormai dal lontano 1994, cioè da quando è finita l’apartheid ed è iniziata l’era di governo del Congresso nazionale africano (Anc). Si tratta dell’8 per cento di popolazione bianca, concentrata soprattutto tra le vaste distese coltivate, che si trovano tra Johannesburg e Pretoria: enormi fattorie che spesso diventano il bersaglio di assalti, rapine armate, omicidi efferati. Per avere un’idea: l’associazione Transvaal Agricultural Union (Tau) (che riunisce proprietari terrieri bianchi) stimava nell’autunno scorso che 64 contadini sono stati uccisi nelle loro proprietà nel 2015, 71 nel 2016, e 68 nei primi nove mesi del 2017. Sempre la Tau rilevava che nel Sudafrica dei 54 omicidi ogni 100mila abitanti (il tasso mondiale è di 9), nella comunità agricola questo sale a 138, il più alto al mondo. Razzismo antibianco o criminalità comune? Difficile da stabilire con precisione. È possibile che i due fenomeni coincidano; fatto sta che per i bianchi in Sudafrica il clima è sempre più ostile. Nei giorni scorsi si è consumato un atto che non può che essere interpretato come un nuovo affronto nei confronti degli agricoltori bianchi, che pur essendo l’8 per cento possiedono almeno due terzi delle terre coltivate del Paese. A seguito delle pressioni da parte di gruppi della sinistra, il presidente Cyril Ramaphosa ha annunciato che opererà una modifica della Costituzione per consentire l’avvio del processo di espropriazione dei terreni di proprietà dei bianchi senza compensazione. Un modo, secondo i fautori di questo gesto, per riparare ai danni dell'apartheid.
Ecco allora che i bianchi sudafricani (chiamati afrikaner o, nel caso dei discendenti degli olandesi, boeri) hanno iniziato una lenta ma inesorabile fuga dal Paese. Libero scrive che sono già 82mila quelli che hanno raggiunto altre mete: l’Australia del primo ministro Malcolm Turnball che ha dato la disponibilità ad aprire le porte rischiando una crisi diplomatica con il Sudafrica, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti. Ma non solo. La Russia di Vladimir Putin ha avviato dal giugno scorso contatti con le comunità bianche sudafricane per sancire un accordo di accoglienza nella regione meridionale di Stavropol, una zona dal clima temperato e dunque ricca di terreni che aspettano soltanto di essere coltivati. E chi meglio degli operosi afrikaner può aiutare la Russia a trasformare questa regione in un fiorente volano dell’agricoltura? I bianchi che intendono fuggire dal Sudafrica garantirebbero al Paese ospitante di arrivare con 100-150 mila dollari in tasca, un gruzzolo sufficiente a non pesare sulle casse statali. I primi profughi sudafricani sono già sbarcati in Russia e, come testimoniano le immagini di questo servizio tg, una volta accolti in aeroporto con calore, sono stati accompagnati a visitare il locale museo di Stavropol e a parlare con il clero ortodosso. L’esperimento - riporta sempre l’edizione di Libero di domenica scorsa - potrebbe essere bissato nei distretti di Rostov sul Don e di Krasnodar e in Crimea. Così la Russia esprime solidarietà concreta verso una popolazione oppressa e, al tempo stesso, ottiene un’immigrazione qualificata.
(Continua su: https://www.interris.it/esteri/cos-la-russia-accoglie-i-bianchi-perseguitati-dai-neri).
2) Africa e Medio Oriente - Mai più cristianofobia (http://cristianofobia.altervista.org/blog/indici/africa-medio-oriente/)
- Ministro della Difesa Mario Mauro: guerra di Siria già decisa 2 anni prima: https://www.youtube.com/watch?v=XoqLEJ-5jEc
- 52 bambini uccisi dai ribelli ‘moderati’ li hanno aspettati che uscivano da scuola: http://www.vietatoparlare.it/52-bambini-uccisi-dai-ribelli-moderati-li-hanno-aspettato-che-uscivano-da-scuola/
- AFRICA/CONGO RD - “È in atto una campagna di diffamazione del governo contro la Chiesa e il Cardinale Monsengwo”: http://www.fides.org/it/news/63559-AFRICA_CONGO_RD_E_in_atto_una_campagna_di_diffamazione_del_governo_contro_la_Chiesa_e_il_Cardinale_Monsengwo
Che oramai i cristiani siano perseguitati in tutto il mondo è un dato di fatto ed il numero di uccisi o buttati fuori dalle proprie case aumenta ogni giorno. I responsabili sono spesso protetti dal governo stesso del luogo che vuole sul posto altre religioni che diano meno fastidio e garantiscano più controllo. È un po’ come la storia dei boeri del secolo scorso e di quello precedente. I gentlemen inglesi non li potevano sopportare perché questi avevano diamanti ed oro ed allora si sono inventati una guerra che ha lasciato morti da tutte le parti. Ma alla fine i gentlemen hanno avuto la meglio e i due stati boeri sono stati fagocitati dagli inglesi, con quale diritto non si sa, ma di fatto, come altrove, non hanno dato nessuna spiegazione del loro operato se non quella di essere degli approfittatori.
I vescovi dai vari siti lanciano appelli sul trattamento che subiscono i cristiani nelle loro diocesi, ma tutto questo occupa poche pagine sui media, perché sono minoranze che spariscono e basta, grazie ai veri governi impegnati in altri problemi che ingrandiscono a secondo del momento e della convenienza. Per la questione immigrazione, ove i disgraziati sono sempre coloro che tentano di vivere altrove, è stato scritto il libro Immigrazione. La grande farsa umanitaria di Blangiardo, Gaiani e Valditara, Aracne, 2017 (seconda edizione). Invece, deputati di ogni dove, pur di mettersi in mostra, sono saliti sulle ONG ben in vista e hanno rilasciato dichiarazioni fiume, senza prospettare alcuna soluzione, perché il loro scopo è solo denunciare ciò che secondo il loro pregiato parere e convinzione non andrebbe: questo sui media fa effetto, perché hanno poco da pubblicare. Bene! Avanti così. I cristiani, per ora, non usano armi, ma non si sa mai.
3) Foggia e quella risposta che non ti aspetti: “Scusi, quindi sono morti di serie B? No, di serie Z”
“Riposi in pace”, si dice solitamente di fronte a un morto, ma ieri tutto questo è stato tradito, dopo l’incidente d’auto a Foggia dove sono morte dodici persone. Dodici braccianti neri sfruttati, lasciati per ore distesi in terra, aspettando che si liberasse “qualche posto in obitorio”, ma l’obitorio non è mica il tavolo di un ristorante.
CRONACA ITALIANA 7 AGOSTO 2018 09:18 di Saverio Tommasi
"Riposi in pace", si dice solitamente di fronte a un morto. Con il tempo questa frase è diventata il finale di una preghiera, la dice il prete al funerale, viene incisa sulle lapidi, la possono condividere gli atei.
"Riposi in pace" è una frase breve di fronte alla complessità della morte. "Riposi in pace" significa rendere merito agli affanni di una vita.
Se è tutto questo, ieri tutto questo è stato tradito, dopo l'incidente d'auto a Foggia dove sono morte dodici persone, dodici braccianti neri sfruttati.
La notizia più importante è la loro morte; la notizia più importante è che con tutta probabilità abitavano nel Ghetto di Foggia, Ghetto come il nome che si riserva a un'area nella quale le persone sono considerate un retroterra etnico.
In quel non luogo si può essere prelevati con un furgoncino non abilitato al trasporto di 15 persone e si può morire per strada, alle ore 15:00 di un giorno caldissimo e già sudato, quasi sicuramente infatti i dodici braccianti stavano tornando alle baracche dopo la mattinata trascorsa a tirare via i pomodori dal campo.
C'è anche dell'altro, però. Una cosa più piccola ma che con le altre viaggia a braccetto, e non la troverete scritta su altri giornali; una cosetta piccola, andata avanti per ore. Un fatterello minuscolo e gigante: l'ultimo corpo è stato caricato, per essere portato in obitorio, a mezzanotte passata da dieci minuti, cioè 9 ore e 10 minuti dopo l'incidente. Prima quei corpi erano distesi per strada. Una volta recuperati dal furgone sono rimasti posizionati sull'asfalto rovente con un lenzuolo bianco sopra; come sul letto di casa, però al contrario e senza letto.
Il riconoscimento è stato fatto per strada, non all'obitorio, una pratica assolutamente estranea alla prassi. Così, pure le foto.
A un certo punto hanno detto anche "in obitorio non c'è posto, aspettiamo si liberi qualcosa", ma l'obitorio non è mica il tavolo di un ristorante.
Il mio collega di Fanpage.it Carmine Benincasa era sul posto e ha chiesto se per caso quelli fossero "morti di serie B" e gli hanno risposto che no, quelli erano "morti di serie Z".
Vi ho raccontato questo fatto perché di fronte alle grandi ingiustizie è facile prendere posizione, anche se magari il giorno dopo le nostre posizioni ce le scordiamo e ci comportiamo come se fosse normale morire sul lavoro, un lavoro pagato tre euro l'ora, meno cinque euro di trasporto, che poi ogni tanto finisce fuori strada.
La civiltà vera si misura però anche dalle piccole attenzioni verso chi non può protestare, e dalla prassi che non dovrebbe cambiare a seconda del colore della pelle delle vittime, o del loro lavoro di braccianti.
"Riposate in pace" resta il mio augurio per tutti e dodici. "Requiescat in pace", Fratelli.
Morti per alcuni miseri euro al giorno o per quintale, per vivere indegnamente, ma sfruttati dai soliti mafiosi o reputati tali.14 attualmente sono i morti riconosciuti in due incidenti stradali, anche perché i mezzi che li trasportavano non erano pullman di linea, né vecchie corriere scassate, ma furgoni piuttosto malandati dove i lavoratori, migranti e non, erano ammassati: lo scontro è stato fatale. Inutili adesso le marce quando il caporalato è da anni il sistema di sfruttamento di questo traffico che rende soprattutto a chi sopraintende il caporalato, che non sono le associazioni dei lavoratori, ma ben altra gente, magari nascosta anche dietro qualche associazione di aiuto. Adesso sembrerebbe che i politici si stiano interessando al problema, ma non si sa se ciò avviene perché è un problema del momento su cui dare opinioni o un problema che viene veramente affrontato. Intanto i morti ci sono, ma non sono solo quelli dei due incidenti. Dietro a loro ci sono coloro che sono morti per malattie dovute al troppo lavoro o allo sfruttamento, delle famiglie che vivono delle misere paghe di chi lavora per loro e non deve assolutamente ammalarsi, delle donne che spesso devono fare lavori da strada per far quadrare il bilancio contraendo malattie di cui non hanno la minima idea.
4) Unhcr, emergenza sbarchi ora è in Spagna
(ANSA) - ROMA, 06 AGO - È la Spagna a vivere ora l'emergenza migranti. Lo sottolinea l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati che rimarca come, mentre negli anni scorsi era l'Italia la meta del maggior numero di arrivi, ora la principale destinazione degli sbarchi è divenuta la Spagna con 23.500 persone arrivate via mare dall'inizio dell'anno, contro le 18.500 dell'Italia e le 16 mila della Grecia. Secondo l'Unhcr il 13, 5% di tutti i nuovi arrivi via mare in Europa è rappresentato da siriani a dimostrare ''la disperazione di queste persone che stanno vivendo la più grave crisi di profughi al mondo''.
Poi la realtà è cambiata: i migranti sbarcano ancora in Italia senza l’autorizzazione competente e si riaccende la questione sulla distribuzione dei medesimi nei paesi europei;  la situazione cambia di nuovo e il peggio è sempre dei migranti che non sanno più dove andranno a finire, anche se ultimamente dalla nave Aquarius sono stati sbarcati a Malta, ma in attesa di essere distribuiti in vari paesi dell’UE.
Certo che leggere cosa succede in altri continenti e paesi, tipo Venezuela, è più terribile e soprattutto dà dati abbastanza certi.
5) Migranti, dal 2016 oltre 68mila bambini detenuti in Messico: il 91% espulso. Unicef: “Riportati in situazioni invivibili”
Da quanto si legge nell'ultimo rapporto della Ong, l'estrema violenza, la povertà e la mancanza di opportunità non sono soltanto le cause delle migrazioni irregolari, ma anche le conseguenze delle espulsioni dal Messico e dagli Stati Uniti: per questo nel documento si invitano i governi a collaborare per tutelare il benessere dei minori
di F. Q. | 17 agosto 2018.
Sono oltre 68mila i bambini migranti detenuti in Messico fra il 2016 e aprile 2018: il 91% di questi sono stati espulsi verso l’America Centrale. Tra gennaio e giugno di quest’anno, da Messico e Stati Uniti circa 96mila migranti – tra cui 24mila tra donne e bambini – sono stati rimpatriati. A rendere noti questi dati è l’Unicef, nel nuovo rapporto “Uprooted in Central America and Mexico”, in cui si tracciano le vie dei piccoli migranti che, sradicati dall’America centrale, affrontano un circolo vizioso di difficoltà e pericoli. Da quanto si legge l’estrema violenza, la povertà e la mancanza di opportunità non sono soltanto le cause delle migrazioni irregolari, ma anche le conseguenze delle espulsioni dal Messico e dagli Stati Uniti. Per questo l’Unicef invita i governi a collaborare per trovare soluzioni che tutelino il benessere dei bambini rifugiati e migranti durante il viaggio e riducano le cause delle migrazioni irregolari.
Il report dell’Unicef arriva a qualche mese dalle polemiche sulla politica dei rimpatri di Donald Trump che aveva visto i minori di famiglie irregolari strappati ai genitori e chiusi in delle gabbie in attesa di essere rimpatriati. L’opinione pubblica era rimasta talmente sconvolta dai pianti di quei bambini che il presidente statunitense era dovuto tornare sui suoi passi. E proprio le politiche sul rimpatrio sono un punto su cui l’Unicef si sofferma. La separazione familiare e la detenzione da parte delle autorità competenti in materia di migrazione, sono esperienze fortemente traumatizzanti che secondo l’Unicef possono pregiudicare lo sviluppo a lungo termine del bambino.
Tenere le famiglie unite e supportare alternative alla detenzione sono misure fondamentali per assicurare il superiore interesse dei bambini migranti e rifugiati. Marita Perceval, direttore regionale dell’Unicef per l’America Latina e i Caraibi, ha ricordato che “in molti casi, i bambini che sono rimandati nei loro paesi d’origine non hanno nessuna casa in cui tornare, e finiscono per essere sommersi dai debiti o sono presi di mira dalle gang criminali”. Per cui “essere riportati a situazioni invivibili rende più probabile una nuova migrazione”, ha concluso Perceval.
Oltretutto i bambini e le famiglie che migrano a causa di minacce di violenza possono essere esposti a un rischio ancora maggiore se sono costretti a ritornare, senza nessun supporto o protezione, nelle comunità da cui sono andati via: molti finiscono così per diventare sfollati “interni” perché non è sicuro tornare a “casa”. La violenza, specialmente quella delle gang, è un problema molto diffuso nell’America centrale. L’Unicef riporta che tra il 2008 e il 2016 in Honduras, per esempio, circa un bambino ogni giorno è stato vittima di omicidio. Analogamente, a El Salvador, 365 bambini sono stati uccisi nel 2017, mentre in Guatemala sono stati segnalati altri 942 casi.
Nel rapporto si evidenzia quindi la paradossale situazione per cui i piccoli migranti rimpatriati, e così le loro famiglie, devono affrontare la stigmatizzazione all’interno delle comunità a causa del loro tentativo fallito di arrivare in Messico o negli Stati Uniti: per gli adulti diventa difficile mantenere o trovare un lavoro con cui pagare i debiti, e per i bambini diventa difficile integrarsi, diventando facili prede delle gang. Senza le risorse necessarie per i beni di prima necessità, o senza casa, i piccoli migranti sono destinati a finire in un circolo di povertà e violenza. Per questo Perceval sostiene sia compito dei governi “fornire loro la protezione e il supporto necessari per una reintegrazione efficace” oltre “all’accesso ai servizi essenziali durante il percorso migratorio”.
(Continua su: https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/17/migranti-dal-2016-oltre-68mila-bambini-detenuti-in-messico-il-91-espulso-unicef-riportati-in-situazioni-invivibili/4565524/).
Il paese ha le sue croste da grattare, ma ci sono paesi, o meglio persone, che devono per forza emigrare a causa di guerre o per povertà estrema, e non incontrano che difficoltà di tutti i generi; poi, se sono accolti, trovano quel che trovano, anche approfittatori che li sfruttano. La notizia attendibile è quella dei bambini detenuti in Messico perché migranti, cioè bambini che fuggivano dalla miseria, dalla fame, ecc. per trovare un mondo migliore, hanno invece trovato il carcere con tutte le sue magagne, che riguardano sempre i minori. 68000 mila, non quaranta o cinquanta: una cifra da capogiro, ma reale e tremenda. Non menzionano i morti in questo contesto, che non mancheranno di sicuro e che ingrosseranno le fila degli scomparsi (missing). E così va avanti il mondo, nonostante le varie ammonizioni che giungono da tutte le parti, ma che sono considerati nulla, vuoto. Ricordiamoci di questi minori, perché Qualcuno ce ne chiederà conto, anche se non fanno parte della nostra società: sono sempre umani da proteggere o da aiutare.
6) Yemen, attacco a scuolabus: almeno 39 morti. Croce Rossa: “Sono quasi tutti bambini”
Secondo Al Jazeera, il bombardamento sarebbe stato condotto dalla coalizione a guida saudita che da tre anni ha lanciato un’offensiva nello Yemen. Le vittime avrebbero tutte (o quasi) meno di 10 anni, ha spiegato un portavoce della Croce Rossa.
MEDIO ORIENTE 9 AGOSTO 2018 12:39 di Biagio Chiariello
Sono quasi tutti bambini le vittime dell’attacco contro uno scuolabus che ha fatto almeno 39 morti nel governatorato di Saada, nel nord dello Yemen. Decine di persone sono rimaste ferite, ha riferito il ministero della Sanità. Secondo Al Jazeera, il raid, avvenuto in un mercato a Dayan, in una roccaforte del movimento politico degli Houthi, sarebbe stato condotto dalla coalizione araba guidata dall'Arabia saudita. La notizia è stata confermata su Twitter anche dalla Croce Rossa, che non ha fornito informazioni sulla natura del bombardamento. “Dopo un attacco, avvenuto stamattina, che ha colpito un autobus che trasportava bambini in un mercato di Dahyan, nel nord di Saada, un ospedale supportato dall’ICRC ha ricevuto decine di morti e feriti “, si legge nel tweet. “Secondo il diritto umano internazionale, i civili devono essere protetti durante i conflitti”, ha aggiunto la Croce Rossa. Johannes Bruwer, capo della delegazione per il CICR in Yemen, ha poi aggiunto che “la maggior parte delle vittime aveva meno di 10 anni”. Anche la televisione locale al Massirah, gestita dagli Houthi, parla di 39 morti e 51 feriti, principalmente bambini. Il portavoce della coalizione non ha ancora commentato.
Perché si combatte nello Yemen
L'Arabia Saudita e alcuni dei suoi alleati, in particolare gli Emirati Arabi Uniti, hanno lanciato l’Operation Decisive Storm contro lo Yemen nel marzo 2015 nel tentativo di reintegrare l'ex presidente yemenita Abd Rabbuh Mansur Hadin, fedele alleato di Riyadh, e distruggere il movimento popolare di Ansarullah. L'offensiva inizialmente consisteva in una campagna di bombardamenti, ma in seguito c’è stato un blocco navale e lo spiegamento di forze di terra nello Yemen. L’operazione finora non è riuscita a raggiungere il suo obiettivo, grazie alla ferma resistenza dalle truppe yemenite e dei combattenti Houthi, ma ha scatenato una tra le peggiore crisi umanitaria al mondo nello stato più povero della penisola arabica.
È normale che chi ha assassinato circa 40 bambini cerchi delle scusanti, anche se queste sono inventate per giustificare ancora una volta il massacro di bambini e la giustificazione da vergogna è che si voleva nel tentativo dell’Arabia Saudita di avere nello Yemen un fedele alleato che distruggesse un movimento popolare. Non importa se ci sono andati di mezzo dei bambini, anzi forse è proprio quello il torbido scopo: sollevare odio e discordia e soprattutto imporsi come hanno fatto gli inglesi nel Sud Africa assassinando i Boeri e rubando le loro terre ricche di diamanti e di oro. Così vigliaccamente le nazioni si comportano  verso i paesi più poveri provocando una ennesima crisi umanitaria che mette a dura prova la popolazione semidistrutta. Ma andiamo avanti: tanto le Nazioni Unite stanno a guardare o mandano qualche desolante messaggio che lascia il tempo che trova. Tanto i morti non risuscitano ora. Dio abbia in gloria quei bambini assassinati per l’odio e gli intrighi politici.
Yemen: 31 uccisi da Coalizione araba
BEIRUT - 24/08/2018 - 16:00
Secondo media Riad le vittime sono miliziani insorti
BEIRUT, 24 AGO - Gli insorti yemeniti vicini all'Iran denunciano un "massacro" contro civili compiuto dalla Coalizione araba a guida dell'Arabia Saudita contro un agglomerato di sfollati vicino al porto di Hudayda sul Mar Rosso. Secondo media sauditi, le persone uccise nei bombardamenti non sono civili bensì miliziani. Secondo la tv al Mayadin, vicina all'Iran, i raid aerei sauditi hanno ucciso nelle ultime ore 31 civili, 22 dei quali minori, nel sobborgo di Durhaymi, dove sono ammassate migliaia di civili sfollati dall'assedio di Hudayda da parte delle forze della Coalizione. Dal canto loro, media sauditi riferivano ieri dell'uccisione di 38 miliziani Huthi nei pressi di Durhaymi. Le informazioni non sono verificabili in maniera indipendente sul terreno.
Strage in Yemen: uccisi 26 bambini
Continuano le violenze nello Yemen. Ieri un attacco ad al-Duraihimi, nello Yemen settentrionale, dove sono morti 26 bambini e 4 delle loro madri. L’appello dell’Unicef: fermate la guerra contro i bambini
Andrea Gangi – Città del Vaticano

Secondo attacco in due settimane da parte della coalizione saudita che ha coinvolto i civili. Già giovedì, nel distretto di Al-Durayhimi, 4 bambini hanno perso la vita in un raid aereo. L’Onu ha condannato l’accaduto. Il Segretario generale delle Nazioni Uniti, Antonio Guterres, ha chiesto un'indagine indipendente sull'accaduto e ha affermato che "serve "un'indagine imparziale, indipendente e rapida”.
Vittime innocenti
Secondo alcune testimonianze, le vittime stavano fuggendo dai combattimenti, quando è avvenuto il raid aereo. Si tratta di civili innocenti, la maggior parte dei quali bambini. Nelle ultime settimane gli attacchi contro la popolazione sono aumentati. L’attacco più devastante e recente rimane quello del 9 agosto, quando la coalizione araba si è scagliata contro la roccaforte dei ribelli sciiti Houti di Saada, nello Yemen settentrionale.
La condanna internazionale
Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. Mark Lowcock, sottosegretario generale dell'Onu per i diritti umani, ha condannato gli attacchi sui civili: "Questa è la seconda volta in due settimane che un raid aereo della coalizione guidata dai sauditi causa decine di vittime civili". Lowcock ha chiesto "un'inchiesta imparziale, indipendente e immediata", affermando che "coloro che hanno influenza devono assicurarsi che i civili siano protetti”.
I disastri della guerra
Il conflitto nello Yemen è iniziato nel 2014, quando i ribelli sciiti Houthi si sono impadroniti della capitale Sanaa e hanno rovesciato il governo. Si è quindi formata una coalizione guidata dai sauditi, con l’intento di combattere gli Houti, sostenuti dall’Iran. Da allora, lo Yemen è stato devastato da una terribile e lunghissima guerra che ogni giorno coinvolge i civili e ha già provocato migliaia di morti, oltre a lasciare il Paese sull’orlo della carestia e a paralizzare il sistema sanitario.
Yemen, la vita (disprezzata) dei bambini: "dal 2015 quasi 2.400 uccisi"
10 ago 2018 - "Il terribile attentato di ieri ad un autobus di Sana' segna un livello davvero basso nella brutale guerra del paese". Appello di Unicef a porre fine al conflitto. Dal 2015 più di 3.600 feriti e "migliaia di vite innocenti danneggiate o distrutte"
Leggiamo bene le cifre che riguardano bambini morti per bombardamenti, massacrati assieme ai genitori o lasciati privi dei genitori uccisi e diventati bambini “da strada” e poi sfruttati anche in questa triste circostanza. Qualche volontario che li aiuta c’è e senza trombe che annunciano quello che fa, ma molti soccombono perché privi di guida o perché catturati per diventare schiavi o soldati.
7) Calabria, sbarco di migranti tra i bagnanti: sono 72 curdi e afghani, arrivati in barca a vela
Sbarco questa mattina alle 10: 72 migranti curdi e iracheni sono arrivati sulla spiaggia di Afrivo, vicino a Reggio Calabria, a bordo di una barca a vela. Tra di loro anche donne e bambini.
CRONACA ITALIANA 10 AGOSTO 2018 12:50 di Giorgio Scura
Sorpresa questa mattina attorno alle 10 tra i bagnanti di Africo, in provincia di Reggio Calabria. Poco dopo le 10 una barca a vela carica di migranti è spuntata all'orizzonte tra lo stupore generale delle persone, non molte, che in quel momento si trovavano in spiaggia. Immediatamente è scattato l'allarme e con esso le operazioni di soccorso.
Carabinieri, personale medico e personale amministrativo del comune, assieme ad alcune persone del luogo, hanno dato un primo aiuto ai migranti dando loro acqua e cibo.
La spiaggia in questione è quella in località Capo Bruzzano, nel territorio del comune di Africo. I migranti, di varia nazionalità e apparentemente in buone condizioni di salute, erano a bordo della barca a vela che si è arenata. Sul luogo dello sbarco sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Bianco e i poliziotti del Commissariato di Bovalino che hanno rintracciato tutti gli extracomunitari che erano a bordo del natante.
Tra i profughi ci sono anche 12 minori e venti donne. Sono tutti in buone condizioni di salute. L'imbarcazione, che è stata sequestrata e condotta nel porto di Roccella Ionica, sarebbe partita, secondo le informazioni raccolte, una settimana addietro da un porto della Turchia. Trentatré migranti saranno accolti in una struttura di Bianco, mentre gli altri 39 verranno ospitati nel centro di prima accoglienza di Roccella Ionica.
Circa 20 giorni fa 56, tra siriani e curdi iracheni, erano arrivati a Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, su un veliero che si è arenato poco lontano dalla riva. A soccorrerli erano stati gli stessi vacanzieri con i pedalò.
Allora non è vero che l’ Italia ha chiuso i porti agli immigrati, perché questi continuano ad arrivare adottando un sistema differente da quello in uso presso le grandi ONG presenti ai confini con la Libia cui sfuggono per paura di essere trasportati in Libia dove sembrerebbe che il clima per loro non è dei migliori.
Dunque i migranti cercano e trovano soluzioni diverse da quelle ufficiali. Zittiscano i rigurgiti di odio verso Salvini che hanno uno scopo manifesto. Zittiscano anche le critiche alla solita Italia da parte di parlamentari e media che si erigono a difensori dello stato sociale mondiale e che scrivono di tutto un po’ sull’Italia, che cerca in ogni modo di rialzare la testa, e che invece si vuole tenere nella servile sudditanza di altre nazioni che sbandierano tante scempiaggini per nascondere i loro scopi, che non sono dei più limpidi.
 Ma fino a quando avremo politici che hanno accettato malamente questo governo e hanno sempre da dire, anche se sono state loro inflitte condanne non da ridere, ma devono mettersi sempre in mostra anche se nessuno li vuole sempre vedere circondati da guardie e da sostenitori prezzolati?
Sbarchi di migranti a Lampedusa, Martello: "Silenzio su quanto avviene qui"
Il sindaco di Lampedusa: "Per la nave 'Diciotti' hanno fatto succedere un pandemonio e parliamo di 170 persone. Qui, ne stanno arrivando a centinaia al giorno e nessuno dice nulla"
Redazione - 04 settembre 2018 08:47
Sbarchi di migranti a Lampedusa, Martello: "Silenzio su quanto avviene qui"
"Non comprendo il perché di questo assoluto silenzio per le questioni che riguardano Lampedusa. Per la nave 'Diciotti' hanno fatto succedere un pandemonio e parliamo di 170 persone. Qui, ne stanno arrivando a centinaia al giorno e nessuno dice nulla. Il ministero dell'Interno non da nessun segnale, né gli uffici rispondono a dei quesiti e richieste di informazione che abbiamo presentato. Non è possibile che fra autorità non si comunichi". Lo dice, secondo quanto riporta oggi il quotidiano La Sicilia, il sindaco di Lampedusa Totò Martello in merito al nuovo ripresentarsi di barchini e barchette sulla più grande delle isole Pelagie.“

Migranti. In 32 sbarcano nell’Area Marina di Isola Capo Rizzuto
1 SETTEMBRE 2018, 12:59 CROTONE CRONACA
Non si fermano gli sbarchi sulle coste italiane, in particolare lungo quelle calabresi. Anche oggi altri 32 migranti - 27 pakistani e 5 bengalesi, tra i quali anche quattro minori e due donne - sono stati intercettati lungo Capo Cimiti, nell’Area marina protetta del comune di Isola Capo Rizzuto, nel crotonese.
Il gruppo è arrivato viaggiando a bordo di un veliero di 12 metri di lunghezza. L’allarme è stato lanciato da un residente, il proprietario di un fondo agricolo vicino alla costa, quanto i migranti avevano già raggiunto il litorale.
Sul posto la Croce Rossa, la Misericordia di Isola e la polizia.
(Continua su: http://www.cn24tv.it/news/178826/migranti-in-32-sbarcano-nell-area-marina-di-isola-capo-rizzuto.html).
8) Siria, esplode deposito di armi in un palazzo: 39 civili morti, 12 erano bambini
L’esplosione si è verificata in un palazzo residenziale nella provincia di Iblid, nel nordest della Siria, in una delle pochissime zone ancora controllate dai ribelli.
13 AGOSTO 2018 07:35 di Davide Falcioni
E' di almeno 39 civili morti, 12 dei quali bambini, il bilancio dell'esplosione di un palazzo in una zona residenziale della provincia di Idlib, nel nordest della Siria. A renderlo noto l’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdh), specificando che le cause dell’esplosione sono ancora sconosciute. L'incidente è avvenuto ieri, domenica 12 agosto, nella cittadina di Sarmada, nel nord ovest della provincia di Idlib. L'edificio esploso, che si sviluppava su diversi piani, sarebbe interamente crollato. Al suo interno vi sarebbe stato un deposito di armi. Alcune fonti riferiscono anche di un secondo stabile crollato.
Nei primi minuti dopo l'esplosione il numero delle vittime sembrava essere di 12 persone, ma il bilancio è aumentato scavando tra le macerie e potrebbe crescere ancora. L’Osservatorio siriano dei diritti umani ritiene che la maggior parte delle vittime siano componenti delle famiglie di combattenti del gruppo ribelle Hayat Tahrir al-Sham, un’alleanza guidata da jihadisti provenienti da Al-Qaeda provenienti dalla provincia centrale di Homs.
Stando a quanto riferisce la Bbc, l’edificio crollato conteneva munizioni appartenenti a un trafficante d’armi. Negli ultimi mesi molte esplosioni e omicidi hanno scosso la provincia di Idlib, rivolti principalmente contro funzionari e combattenti intenzionati a rovesciare il governo di Bashar al-Assad. Alcuni attacchi sono stati rivendicati dallo Stato Islamico e la maggior parte di essi sono il risultato di lotte intestine tra altri gruppi ribelli.
Quasi due milioni e mezzo di persone vivono nella provincia, metà delle quali sfollate da altre parti della Siria. Idlib è l’ultima grande città siriana ancora sotto il controllo dai ribelli e la sua liberazione dovrebbe essere il prossimo obiettivo delle forze armate siriane comandate da Assad.
Sono storie che scompaiono presto dalle relazioni, che a mala pena sono tollerate, e le cifre di bambini morti superano di gran lunga le disgrazie che succedono anche nel nostro paese. Minuti di silenzio per questi bambini non ce n’è. Si mandano relazioni da voltastomaco che si spera producano l’effetto di un aiuto concreto e sincero e non strombazzato, come invece succede se si interessano i politichesi o “ambasciatori” di fantomatiche associazioni: la passerella è di dovere.
9) Kamikaze Isis in Siria: oltre 100 morti. La folla cattura tre attentatori: lapidati e impiccati
Una serie di attacchi suicidi ha sconvolto questa mattina Sweida, città vicina alla frontiera con la Giordania. Almeno tre kamikaze dell’Isis si sono fatti esplodere in un mercato ortofrutticolo e in una piazza provocando una carneficina. Uno dei terroristi è stato catturato vivo e impiccato con altri due degli attentatori alle porte dell’ospedale della città. Il bilancio è di oltre 100 morti, tra cui nove donne e un bambino.
GUERRA IN SIRIA 25 LUGLIO 2018 18:12 di Mirko Bellis
in foto: Il mercato ortofrutticolo luogo di uno degli attentati suicidi dell’Isis e a destra i tre terroristi impiccati davanti all’ospedale di Sweida
Tre miliziani dell’Isis che questa mattina hanno attaccato Sweida, nel sud della Siria, sono stati impiccati dalla folla inferocita davanti all'ospedale della città. E’ la macabra risposta alla serie di attentati ad opera di un commando di terroristi suicidi che hanno preso di mira la città vicina al confine con la Giordania. Secondo quanto riporta l’Osservatorio siriano per i diritti umani, negli attacchi terroristici sono morte oltre 100 persone, tra cui nove donne e un bambino. I feriti sarebbero decine così come le persone che al momento risultano disperse e il numero delle vittime è destinato a salire.
Poco dopo le cinque di questa mattina, almeno tre kamikaze hanno compiuto un massacro in un mercato ortofrutticolo e in una piazza della città. “Tre attentatori con cinture esplosive hanno preso di mira la città di Sweida; altre esplosioni hanno colpito i villaggi a nord e ad est”, ha affermato Rami Abdel Rahman, a capo dell'Osservatorio con sede in Gran Bretagna. Per l’agenzia statale di notizie Sana, invece, a compiere la carneficina sarebbe stato un uomo solo mentre gli altri due attentatori sarebbero stati uccisi dalle forze di sicurezza prima di farsi saltare in aria nei villaggi di al-Matouneh, a nord di Sweida, e a Douma, Tima ed al-Shabaki, a nord-est della città.
Si è trattato di un attacco coordinato portato a termine da diversi terroristi suicidi. Secondo le prime ricostruzioni, l'attentatore era a bordo di una moto e si è fatto esplodere nel mezzo della piazza dove in quel momento si trovavano i commercianti che stavano preparando i banchi del mercato ortofrutticolo. Veicoli danneggiati, i resti di un carretto di frutta e chiazze di sangue, sono le prime desolanti immagini dopo l’attentato.
Alcune fonti locali hanno affermato che un secondo assalitore ha colpito in un altro punto affollato della città, mentre due kamikaze si sono fatti saltare in aria prima di essere catturati dalle forze di sicurezza. Oltre ai civili uccisi, la maggior parte delle vittime sono militari dell’esercito e miliziani loro alleati. Tra gli obiettivi anche l'ospedale di Sweida dove un attentatore dell’Isis è stato preso vivo e lapidato dalla folla prima di essere impiccato assieme ad altri due terroristi davanti alla struttura sanitaria.
L'Isis ha rivendicato il massacro nella provincia di Sweida affermando di aver ucciso oltre 170 persone e di aver provocato il ferimento di altre 200
L’attacco a Sweida è uno dei peggiori degli ultimi mesi e il più mortifero mai realizzato in questa provincia a sud-ovest della Siria, risparmiata finora dai tragici eventi che dal 2011 insanguinano il Paese mediorientale. Gli attentati dell’Isis sono anche la dimostrazione che gli estremisti del sedicente Califfato, nonostante le numerose sconfitte, rappresentano ancora una seria minaccia. I jihadisti hanno perso quasi ovunque terreno ma rimangono attivi in diverse sacche nel sud e a est della Siria. Soprattutto nella provincia meridionale di Daraa – quasi interamente riconquistata dall'esercito di Bashar al Assad – è presente la formazione jihadista Jaish Khaled bin al- Walid, affiliata all'Isis. Il gruppo, che può contare su circa un migliaio di combattenti, è stato oggetto di un'intensa campagna di bombardamenti da parte di jet russi e siriani negli ultimi giorni. Le truppe di Damasco hanno ormai riconquistato quasi il 90% del sud della Siria e la settima scorsa è stato siglato un accordo tra le forze ribelli e il governo siriano per permettere ai civili di abbandonare la zona verso la provincia settentrionale di Idlib.
10) Malta risponde ‘no’ all’appello di nave Diciotti: “Non accogliamo i 177 migranti”
Malta ha risposto alla richiesta della Guardia costiera italiana: “L’Italia non ha appigli legali per chiedere a Malta di fornire un porto sicuro per questo ultimo caso. Il porto sicuro più vicino è Lampedusa”. Gasparri: “Chi ha dato l’ordine alla Capitaneria di Porto di imbarcare in acque territoriali di un altro Paese dei clandestini?”.
POLITICA ITALIANA 16 AGOSTO 2018 23:02 di Annalisa Cangemi
Nuovo braccio di ferro tra Italia e Malta, alle spese dei migranti. Dopo l'accordo raggiunto ieri tra cinque Stati dell'Ue sui 141 migranti a bordo della nave Aquarius dell'ONG Sos Mediterranee e di Msf, e dopo che l'Italia aveva dato l'ok per prenderne in carico 20 (Francia e Spagna ne prenderanno 60 a testa) si profila un nuovo stallo diplomatico.
Una nave della Guardia costiera italiana, la Diciotti, ha soccorso 190 persone in mare. Il salvataggio è avvenuto ieri notte. Il natante, che si trova ora tra acque maltesi e italiane, ha chiesto a Malta un porto per lo sbarco e l'assistenza. I 190 migranti si trovavano su un barcone, con il motore in avaria: tra le persone messe in salvo, la Capitaneria ne ha evacuate 13 bisognose di cure mediche, insieme ai loro familiari. Questi profughi, tutti eritrei, si trovano adesso a Lampedusa: sono state portate nel poliambulatorio dell'isola. Tra di loro c'è una donna che avrebbe subito violenze durante la permanenza in Libia e che ha avuto un aborto spontaneo. E poi ci sono tre bambini sono affetti da scabbia, un uomo con linfedema, uno con forti dolori addominali e un altro in stato di collasso.
A coordinare i soccorsi, avvenuti nell'area Sar maltese, sono state le autorità della Valletta, fino alle 20.53 di ieri sera. Per questo motivo il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo si è rivolto al governo maltese, per poter sbarcare i restanti 177. Tra di loro ci sarebbero 137 uomini, 6 donne e 34 minori.
L'isola ha però opposto un fermo rifiuto: "L'Italia non ha appigli legali per chiedere a Malta di fornire un porto sicuro per questo ultimo caso", ha chiarito il governo maltese in una nota pubblicata dal ministro degli Interni Michael Farrugia – "Il porto sicuro più vicino è Lampedusa". Secondo la ricostruzione fatta dal governo maltese, il barcone di migranti, "che procedeva nella navigazione senza dare segnali di difficoltà", "ha rifiutato l'aiuto della Marina maltese, che stava monitorando l'imbarcazione lungo il suo tragitto all'interno della zona di ‘Search and Rescue' (Sar) maltese, insistendo di voler proseguire il viaggio verso la sua destinazione finale, cioè l'Italia".
"Stranamente – recita la nota – il Centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma non ha mostrato alcun interesse per la sicurezza dei migranti quando il barcone si trovava nella zona di ‘Search and rescue' della Libia e non ha fornito assistenza tra una zona Sar e un'altra". Il comunicato è accompagnato da una cartina che mostra il luogo del recupero dei migranti, distante circa 16 miglia nautiche da Lampedusa e oltre 76 da Malta.
Il coordinamento di soccorso maltese, dopo aver effettuato le operazioni di salvataggio, ha assistito le persone a bordo del barcone, fornendo loro acqua, cibo e giubbotti di salvataggio. Alcune ore dopo, alle 3.07 della scorsa notte, il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo, che in quel momento non conosceva la posizione delle navi di soccorso maltesi, è stato contattato dal barcone, dal quale si segnalava avaria al motore e infiltrazioni di acqua a bordo, anche a causa delle condizioni atmosferiche avverse. Durante le operazioni di recupero da parte della Guardia costiera italiana è stata anche rilevata la presenza sconosciuta, nel buio, di un'altra imbarcazione non identificata. Alle 3.20 il Centro italiano di coordinamento del soccorso marittimo ha informato Malta della situazione.
Ora Matteo Salvini minaccia: "Se altri Paesi non prenderanno parte dei 170 migranti salvati oggi dalla motovedetta italiana, noi non ci faremo carico dei venti dell'Aquarius".Era stato proprio il ministro degli Interni a sollevare il caso sul suo profilo Facebook: "È mio dovere informarvi che un barcone con 170 immigrati a bordo, ora in acque maltesi e in difficoltà, viene bellamente ignorato, anzi viene accompagnato verso le acque italiane, dalle autorità maltesi. Se questa è l'Europa, non è la mia Europa. L'Italia ha già accolto, e speso, abbastanza".
Ma il Viminale, secondo quanto ha scritto il vicepremier leghista, non era stato informato dei movimenti della Guardia costiera italiana: "Cronache dall'Europa che non esiste. I maltesi ieri avevano assunto la responsabilità di un intervento in aiuto di un barcone con 170 immigrati a bordo, come giusto, all'interno delle loro acque, e una loro imbarcazione (la P52) era giunta in zona, ma senza prestare alcun soccorso. I maltesi hanno quindi ‘accompagnato' il barcone verso le acque italiane, e una nave della Capitaneria di Porto italiana, senza che al Viminale ne fossimo informati, ha imbarcato gli immigrati mentre ancora si trovavano in acque maltesi, per dirigersi verso l'Italia. Ho chiesto che la nave italiana contatti le autorità maltesi, nelle cui acque è avvenuto il soccorso, perché mettano a disposizione un porto per lo sbarco. Dopo aver accolto via mare 700.000 immigrati in pochi anni, penso che l'Italia abbia già fatto il dovere suo e anche di altri".
Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha commentato l'episodio criticando duramente il governo: "Leggo una dichiarazione del vicepresidente del Consiglio Salvini il quale dice che, senza che al Viminale fossero stati informati, una nave della Capitaneria di Porto italiana ha imbarcato in acque albanesi 170 clandestini. Chi ha dato l'ordine alla Capitaneria di Porto di imbarcare in acque territoriali di un altro Paese dei clandestini? Il Ministro da cui dipendono, ovvero Toninelli? O la Capitaneria agisce secondo proprie libere valutazioni? Non credo sia così. Nel passato Forza Italia contestò il comportamento che i governi a guida Pd avevano imposto alla Guardia Costiera, facendole caricare in qualsiasi luogo e in qualsiasi contesto clandestini che venivano portati in Italia. Fummo noi per primi a chiedere che questo andazzo finisse. Ci sorprende leggere le parole del Ministro dell'Interno Salvini, che esprime una meraviglia che condividiamo, ma alla quale vorremo seguissero atti conseguenti. È stato Toninelli ad agire, ancora una volta, da importatore di clandestini?". 
La lotta ai migranti si fa sempre più drammatica. Ci sono  migranti che arrivano e che non vogliono ritornare in Libia, e paesi dell’Ue che giocano al rimpallo, e lasciano a noi italiani il compito di assistere coloro che arrivano. Chi si è più lamentato della diminuzione dei migranti arrivati ed in arrivo sono i criminali della tratta, che hanno visto una diminuzione drastica dei loro guadagni e hanno cercato soluzioni come far entrare i migranti in Spagna attraverso Ceuta. La milizia spagnola spara proiettili, seppur di gomma ed acqua, e nonostante questo molti migranti hanno sfondato le reti alte sette metri e sono entrati in Spagna.
11) A proposito di morti per incidenti a Lombok (Indonesia) 460 morti per il terremoto di settimane fa. Pochi i riscontri di un così alto numero di vittime e nessun giorno di lutto. Ma l’Indonesia è lontana.
Nuovo terremoto a Lombok, magnitudo 6.3
by Quotidiano dei Contribuenti - 19 agosto 2018
Anche in questo caso le cifre dei morti le leggiamo e via, ma sono morti veri, che spariscono dalla terra e che forse saranno ricordati a malapena dai loro parenti. Noi facciamo sceneggiate a non finire per cifre di morti molto inferiori. Ricordiamo anche questi morti lontani, che appartengono anch’essi al genere umano e che con molta probabilità non erano nel gruppo dei VIP, ma della gente che provava a vivere e ad allevare i propri figli. Ricordiamoli.
12) India, inondazioni nel Kerala: 114 morti e oltre 150mila sfollati
Drammatico il bilancio delle vittime delle inondazioni dovute alle piogge monsoniche che ormai da giorni stanno colpendo lo Stato indiano del Kerala, nel Sud del Paese. Centinaia di villaggi sono stati spazzati via, circa diecimila chilometri di strade e migliaia di case sono state rase al suolo.
ASIA 17 AGOSTO 2018 07:54 di Susanna Picone
È drammatico il bilancio delle vittime delle inondazioni dovute alle piogge monsoniche che ormai da giorni stanno colpendo lo Stato indiano del Kerala, nel Sud del Paese. L’ultimo bilancio riportato dall’Economic Times in India parla di almeno 114 morti. Altissimo anche il numero degli sfollati: secondo la Bbc online, sono almeno 150mila. Il governo centrale ha schierato ieri tutte le forze armate (esercito, marina, aeronautica) per una massiccia operazione di soccorso. Al momento, a causa delle inondazioni, circa diecimila chilometri di strade sono state distrutte o danneggiate così come centinaia di case. Parti della capitale commerciale del Kerala, Kochi, sono sommerse. Risultano ferme le ferrovie e la metropolitana, mentre l'aeroporto resterà chiuso fino al prossimo 26 agosto. Il governo locale del Kerala ha lanciato appelli alla popolazione a non ignorare gli ordini di evacuazione.
Il Kerala è uno stato da sempre soggetto ai monsoni – Quest’anno le piogge monsoniche, che di solito cadono incessanti da giugno a settembre, sono arrivate l’8 agosto. Le piogge hanno inondato case e strade e fatto crollare ponti. Le zone più colpite sono i villaggi rurali, con le case spesso costruite in paglia e legno. Centinaia di villaggi sono stati spazzati via. Ogni anno in Kerala in questo periodo si registrano centinaia di vittime, ma secondo gli esperti l’attuale alluvione è il peggior episodio registrato nell’ultimo secolo. “La situazione è brutta in molte zone dello Stato e il numero delle persone morte probabilmente salirà”, aveva detto nel giorno di Ferragosto un alto funzionario del dipartimento per la gestione dei Disastri.
13) Gli Stati Uniti mettono il segreto sulle armi nucleari (anche su quelle nelle basi italiane)
Inversione di rotta del governo statunitense: i dati sui controlli di sicurezza sulle armi nucleari non verranno più divulgati.
POLITICA ITALIANA 20 LUGLIO 2017 13:03 di Annalisa Cangemi
Il Pentagono si chiude a riccio e blocca il flusso di informazioni sulle armi nucleari collocate all'interno delle basi americane presenti sul nostro territorio. I dati sulle ispezioni sulla sicurezza effettuate sui depositi di armi statunitense verranno d'ora in poi secretati. Il nostro Paese è quello più esposto tra quelli europei: l'Italia infatti è l'unico Paese che ospita ben due basi americane. Nelle basi di Aviano (provincia di Pordenone) e Ghedi (provincia di Brescia) sono conservate bombe nucleari, che pochi giorni fa proprio l'Onu ha deciso di mettere al bando con una risoluzione votata dall'Assemblea generale. Nei depositi custoditi all'interno delle due basi sarebbero presenti 50 bombe B-61 (Aviano) e 20 a Ghedi-Torre). Il governo americano non renderà pubblici i report, e quindi non si saprà se lo stato delle bombe rispetterà gli standard di sicurezza.
Come ha spiegato a Repubblica.it Steven Aftergood, a capo del programma "Project on Government Secrecy" della Federation of American Scientists di Washington, "Senza rivelare informazioni coperte dal segreto di Stato, i rapporti delle ispezioni possono indicare se ci sono stati problemi con il personale che maneggia gli armamenti nucleari, se ce ne sono stati con l'equipaggiamento tecnico o con altri aspetti dello stoccaggio delle armi". 
Anche se il provvedimento non si riferisce specificamente alle basi americane sul suo italiano, i cittadini italiani che vivono nei pressi delle basi non potranno sapere se durante i sopralluoghi dei militari americani sono state rilevate anomalie o malfunzionamenti sugli armamenti atomici. Fu proprio un report sulla sicurezza effettuato nel 2008 a far scattare l'allerta nel 2008 nella base di Ghedi: un anno prima la US Air Force aveva perso il controllo per ben 36 ore di 6 testate nucleari, che sono state trasportate in giro negli Stati Uniti.
Questo tipo di informazioni è necessario in Italia oggi più che mai. Proprio martedì 18 luglio sono state presentato in Senato 4 mozioni sulla proliferazione del nucleare, alla luce della decisione della Difesa di impiegare, in sostituzione delle B-61, bombe nucleari B-61-12 in dotazione dei velivoli F-35, i velivoli d'attacco mono-pilota. Gli aerei saranno in grado di montare a bordo due bombe. Come annunciato dal Governo, il programma JSF/F-35 Lightning II prevede l'acquisto di 90 di questi velivoli. La discussione è in ancora in corso, visto che l'Italia ha firmato il Trattato di proliferazione del nucleare, approvato dall'Assemblea generale nel 1968 ed entrato in vigore nel 1970. E finora non il nostro Governo non si è impegnato a firmare il nuovo trattato Onu, dal titolo "Taking forward multilateral nuclear disarmament negotiations", che impegna i Paesi ad una progressiva eliminazione di tutte le armi atomiche. La partita è ancora aperta, ma il Pentagono non sembra avere più intenzione di collaborare.
Tutti dichiarano di voler smobilitare le armi nucleari, ma non sembrerebbe che questo disarmo stia avvenendo, e questo vale anche per l’Italia, con le mozioni in Senato per impiegare le bombe nucleari B61-12 sui gli F 35. La Corea del Nord aveva detto che avrebbe avviato un disarmo nucleare, ma non sembra sia così. Le altre nazioni che hanno armi nucleari tacciono. Molto sicuro tutto questo, vero?? E le bombe nucleari, secondo gli studiosi, sarebbero nello spazio in qualche satellite che circumnaviga la terra: tutto al sicuro.
14) “Cosa rischia penalmente”. Matteo Salvini indagato, il colpo di scena26 agosto 2018/ Politica
[Ed i capi di stato dove erano????? Nemmeno i nostri si sono pronunciati sul rimpallo dell’UE; hanno lasciato cercare una testa da buttare via, magari anche dal ministero per rifare con quelli di comodo]
Colpo di scena nella vicenda della nave Diciotti. La Procura di Agrigento, alla fine dell'attività istruttoria compiuta a Roma, ha deciso di passare a 'noti' il fascicolo relativo al mancato sbarco degli immigrati dal pattugliatore 'U. Diciotti', già iscritto per i reati di sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio. Due gli indagati, uno di questi è il ministro dell’interno Matteo Salvini. Lo ha reso noto in una nota il Procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio. ''Tale procedura, prevista e imposta dalla legge costituzionale 16/1/89 n.1, permetterà, con tutte le garanzie e le immunità previste dalla medesima legge, di sottoporre a un giudice collegiale specializzato le condotte poste in essere dagli indagati nell'esercizio delle loro funzioni - dice Patronaggio - Uno dei quali appartenente ai qualificati soggetti indicati dall'articolo 4 della norma costituzionale''. La nota termina così: "Come è noto infine ogni eventuale negativa valutazione delle condotte di cui sopra, dovrà essere sottoposta alla autorizzazione della competente Camera”.
Oltre al ministro Salvini, è indagato un capo di gabinetto. La reazione di Salvini, ovviamente, è furiosa: "Una vergogna. Possono arrestarmi, ma non fermeranno il cambiamento". Poi l’annuncio "gli immigrati a bordo della Diciotti sbarcheranno nelle prossime ore. Gran parte dei migranti della Diciotti saranno ospitati dalla Chiesa italiana, dai vescovi che hanno aperto le porte, i cuori e il portafoglio", ha spiegato Salvini. E ha proseguito: "Alcuni immigrati vanno in Albania, il governo albanese si è dimostrato migliore di quello francese. E io dico grazie agli albanesi e vergogna ai francesi. La restante parte dei migranti andrà in uno-due altri Paesi ma la maggioranza, e ci ho lavorato personalmente mentre gli altri insultavano, sarà ospitata a cura dei vescovi della Chiesa italiana". Continua a leggere dopo la foto
"Possono arrestare me ma non la voglia di 60 milioni di italiani, indaghino chi vogliono. Abbiamo già dato abbastanza, è incredibile vivere in un paese dove dieci giorni fa è crollato un ponte sotto il quale sono morte 43 persone dove non c'è un indagato e indagano un ministro che salvaguardia la sicurezza di questo Paese. È una vergogna", ha concluso. Le contestazioni, comunque, non possono essere più approfondite dalla magistratura ordinaria, ma devono essere oggetto di valutazione del tribunale competente per i reati commessi dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Le ipotesi di reato per cui Salvini è stato indagato sono: sequestro di persona, arresto illegale e abuso d’ufficio. Ma cosa rischia penalmente Matteo Salvini? Nonostante sia un ministro, Salvini risponde di fronte alla giustizia per eventuali reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni. Ma solo ad alcune condizioni.
L’articolo 96 della Costituzione stabilisce che: “Il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”. Secondo le due leggi che disciplinano la materia (la legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 e la legge n. 219 del 1989) un’eventuale indagine sull’operato del ministro dell’Interno diventerebbe subito di competenza del “Tribunale dei ministri”. L’articolo 96 della Costituzione prevede che sia necessaria l’autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza del ministro. Il procedimento è il seguente: il presidente del ramo del Parlamento competente invia gli atti trasmessi dal Tribunale dei ministri alla giunta per le autorizzazioni a procedere, in base al regolamento della Camera stessa. Entro 60 giorni dalla consegna degli atti al presidente della Camera competente, l’assemblea si riunisce e può “a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo”. Gli inquisiti, nel tribunale ministeriale, non possono essere sottoposti a misure limitative della libertà personale, a intercettazioni telefoniche o sequestro o violazione di corrispondenza ovvero a perquisizioni personali o domiciliari senza l’autorizzazione della Camera competente. L’articolo 605 del codice penale, che prevede il reato di sequestro di persona, stabilisce che: “Chiunque priva taluno della libertà personale, è punito con la reclusione da sei mesi a otto anni”. La pena può arrivare fino a dieci anni se è commessa “da un pubblico ufficiale, con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni” e fino a 12 anni se il fatto “è commesso in danno di un minore”. Il punto è che Matteo Salvini, in quanto leader della Lega, uno dei partiti di maggioranza e membro della coalizione di governo, rischia poco, perché difficilmente il Senato – che è la sua Camera di appartenenza – approverebbe l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. Nonostante il suo hashtag #arrestatemi, Salvini sa benissimo di godere dell’immunità e di non poter essere arrestato senza l’autorizzazione della sua Camera di appartenenza. Il capo di gabinetto, però, non ha come Salvini l'immunità... Quindi stiamo ad aspettare per capire come si evolverà questa faccenda.
“Lo abbiamo denunciato!”. Ahia, guai per Matteo Salvini. Lo hanno fatto davvero. Il motivo
(Continua su: http://247.libero.it/focus/45157381/2/-cosa-rischia-penalmente-matteo-salvini-indagato-il-colpo-di-scena/).
Il pasticciaccio è scoppiato, però non si sanno né ora, né mai i segreti motivi che hanno spinto, dall’Ue ai capi italiani, a lasciare che tutti dicessero la loro, pavoneggiandosi sui media e non facendo nulla di concreto, come una interrogazione seria in parlamento non solo circa i migranti veri provenienti da guerre ecc, ma anche sul comportamento di Malta, e di tutti gli staterelli europei che si sono ben guardati dal dare riposte positive. Si ringrazia l’Albania, l’Irlanda e la Cei che in sesta giornata hanno detto di accollarsi dei migranti. Grazie!
Come reagisce l’Italia, a parte che con manifestazioni di piazza singole o provocate sempre non-si-sa-da-chi e le varie affermazioni delle associazioni cosiddette umanitarie che si sono unite per perorare la causa dei migranti sulla famosa nave? Si ripete che si sono visti parlamentari precedentemente indagati salire sulla nave e rilasciare le solite megainterviste scagliandosi tutti assieme contro il ministro e poi basta: videogiornali con megafoto, ma di pratico non si è letto nulla se non una o due interpellanze (sembra 9) alla Camera. Proposte non se ne sono lette, contro i fiancheggiatori del “niet” allo sbarco dei migranti. Curioso che diverse donne migranti sono volute restare sulla nave per non abbandonare i loro mariti (no comment).Vedremo cosa si muoverà nei prossimi giorni.
15) TRENT'ANNI DOPO - "Così salvammo la boat people" - Diario dal Vietnam 30 anni dopo
A trent'anni da una delle prime missioni di pace della Marina italiana, che nell'estate 1979 portò in salvo 900 profughi vietnamiti in fuga dal regime, il maresciallo parmigiano Pasqualino Marsicano ricorda quella straordinaria esperienza mostrando foto inedite, il proprio diario di bordo e le testimonianze dei profughi
di Maria Chiara Perri
“Bisogna accontentarsi di quello si ha, /perché se ci si volta indietro/c’è chi lotta ancora per vivere”
Estate 1979. Da ventitré giorni l’Andrea Doria della Marina militare italiana è salpata dal porto di La Spezia. Un lungo viaggio tra il Mediterraneo e l’oceano Indiano, giornate che si susseguono monotone tra avvistamenti di delfini e qualche “pesce volante” che plana sul ponte della nave. La navigazione è stata spezzata solo da una breve tappa di rifornimento nel porto di Singapore. Da lì, insieme all’incrociatore Vittorio Veneto e alla nave d’appoggio Stromboli, i marinai italiani sono partiti per la vera missione: salvare i profughi in fuga dal regime comunista dopo l’invasione vietcong del Vietnam del sud. L’Andrea Doria scandaglia per giorni i mari del sud est asiatico in cerca della "boat people". Nulla in vista, la sfiducia inizia a farsi strada tra l’e quipaggio. Poi, il 27 luglio, un segnale: una petroliera diffonde via morse un messaggio. Hanno avvistato un motoscafo pieno di profughi nei pressi di una piattaforma petrolifera. Gli esuli vietnamiti la usano come base, perché da giorni non trovano un attracco. Sono scampati ai tifoni e ai pirati. Le coste li respingono e le navi che li incrociano tirano dritto, ignorando le loro richieste di aiuto. Finalmente, l’Andrea Doria ha un obiettivo.
Sulla nave c’è anche un maresciallo parmigiano. Si chiama Pasqualino Marsicano, ha 35 anni ed è partito con il cuore gonfio. Avrebbe preferito non lasciare a Parma la moglie e la figlia di pochi anni per un incarico lungo e ignoto. Ma non ha avuto scelta. Sa fare molte cose e ha doti umane, quindi i suoi superiori lo hanno giudicato tra i più adatti a partecipare a una delle prime missioni di pace del nostro Paese. Gli Usa hanno chiesto l’i ntervento dell’Italia nella tragedia dei profughi vietnamiti perché alle loro navi è interdetto l’accesso nelle acque cinesi. Quando l’A ndrea Doria si trova a Barcellona, i media italiani diffondono l’a nnuncio in pompa magna. Pasqualino Marsicano verrà a sapere dalla moglie che dovrà andare in Vietnam a salvare vite.
Dal 4 luglio 1979, quando l’Andrea Doria lascia La Spezia, il maresciallo Marsicano inizia a tenere un diario di bordo. Ogni sera disegna con una penna blu una rudimentale cartina di Europa e Asia, tracciando sulla carta il tragitto della piccola flotta. E' uno dei pochi che annota tutti gli avvenimenti di quei giorni, senza la retorica di ufficiali e giornali, ma con empatia e sincerità.
A lui è stato assegnato il compito di stare a contatto con i profughi che saranno imbarcati, dovrà occuparsi delle loro prime esigenze, in particolare del vestiario. Non sa con quante persone avrà a che fare, né in quali condizioni saranno. Però ha notato che tra gli indumenti forniti dalla Marina per i profughi – magliette bianche e calzoncini blu – non ci sono taglie per bambini. Allora ha portato con sé i vestiti che sua figlia non usa più.
Il 27 luglio l’Andrea Doria avvista la prima imbarcazione di profughi. In confronto all’incrociatore italiano, sembra una scialuppa. Trenta, quaranta persone stipate, affamate e disidratate dopo giorni di navigazione. Gli italiani calano in mare un gommone con un interprete che spieghi agli esuli che potranno ricevere aiuto, che se accetteranno di salire a bordo saranno portati in salvo in Italia. Il mare è forza 4, le onde sono lente ma gigantesche, il gommone oscilla e rischia di ribaltarsi. Quando si avvicina al motoscafo, un’onda lo allontana. Allora una donna vietnamita prende il bimbo che ha con sé e lo lancia sul gommone. “ Pensava che volessimo andarcene e ha cercato di salvarlo” spiega oggi Marsicano. Dopo trent’anni, i ricordi di quella straordinaria esperienza gli riaffiorano come flash mentre scorre le pagine del diario e un album fotografico. Dopo quel primo imbarco di profughi, per il giovane maresciallo inizia un intenso mese di lavoro, emozioni, amicizie e riflessioni che segneranno per sempre la sua vita.
La flotta italiana salverà altre due imbarcazioni e accoglierà anche un carico di profughi sbarcati in Malesia e lì trattenuti tra torture e privazioni. “Quando i malesi li hanno caricati sulle navi e portati al largo, erano certi che li avrebbero uccisi e scaricati in mare. Quando le barche hanno spento i motori, hanno pensato ‘E’ il momento’. Sono psicologicamente morti – dice Marsicano – Ma a quel punto hanno visto arrivare le nostre navi, che a loro apparivano gigantesche. E sono rinati”.
Marsicano si occupa di lavare e vestire i profughi imbarcati sull’A ndrea Doria. Le persone sfilano nude davanti a lui. Le donne, come segna sul diario, non si vergognano dei marinai ma dei propri connazionali. Incontra persone di ogni tipo: neonati, giovani donne, persino il classico anziano vietnamita con la barba lunga e sottile e un tipico copricapo. Conosce professori universitari, medici, seminaristi, persone che a differenza di lui parlano e scrivono in inglese e in francese. Ma, nonostante le barriere linguistiche, con tanti Marsicano riesce a creare un legame. Dà loro una penna e un foglio di carta perché scrivano qualcosa di se stessi, su quello che hanno lasciato e su ciò che sperano di trovare. Raccoglie tutte le testimonianze nel suo diario di bordo, una variegata raccolta di parole di vita emerse da un mare di disperazione.
I ricordi più coinvolgenti affiorano. Come il parto di una donna sulla nave, due ore dopo l’imbarco. Il bimbo venne battezzato Andrea. “Per la cerimonia indossava una vestina di seta della mia bimba” spiega il maresciallo. Purtroppo, nonostante le cure dei tanti medici a bordo, il piccolo non supererà la notte. Il padre fuggito insieme alla figlia, che ha lasciato il Vietnam la moglie e altri due bambini. Il marinaio gli chiede con che criterio abbia deciso di prendere con sé proprio quella bambina. Una domanda che rimarrà senza risposta. Un legame speciale e non ancora interrotto, poi, si crea tra Marsicano e la giovane Thanh Tam. Lei lo segue nel lavoro, lo aiuta ad interpretare i bisogni dei suoi connazionali e a farsi capire. Un suo collega italiano deciderà di adottare la ragazza, che giunta in Italia sposerà un veneto. “Al matrimonio, io e il mio collega eravamo gli unici invitati della parte della sposa, in mezzo a un mare di parenti del marito” ricorda il maresciallo. Thanh Tam oggi vive ancora in Italia, ha due figli grandi. Marsicano l’ha incontrata di recente: “Le ho donato una bottiglia di whisky che avevo comprato trent’anni fa sull’Andrea Doria. Per lei è un simbolo di libertà”.
Per qualche adulto, il maresciallo Marsicano è il “capo”, come vengono chiamati gli ufficiali in marina. Ma per la maggior parte delle persone è “daddy”. Un padre, che si occupa dei loro bisogni, la persona cui rivolgersi per qualsiasi cosa. “I bambini appena mi vedevano venivano all’assalto delle caramelle – dice il maresciallo – allora dicevo loro che le avevo finite, poi mentre andavo via le lasciavo cadere una ad una dalle tasche”. L’Andrea Doria e le altre navi torneranno a casa il 20 agosto 1979, nel porto di Venezia, con un prezioso carico di quasi 900 vite salvate da morte certa. La missione è finita e compiuta. Ma il maresciallo Marsicano non riesce a staccare il cuore da quelle frequenze. Organizza una raccolta di abiti e a sue spese li porta nei campi profughi allestiti ad Asolo, Chioggia e Cesenatico. Gli adulti salutano “ capo Marsicano” con gioia e gratitudine. Per i bambini, rivedere “ daddy” è il regalo più bello.
Trent’anni dopo, quella storia che per mesi appassionò la stampa italiana ed estera è quasi dimenticata. Rivive nel cuore di chi l’h a vissuta quando scorre quella raccolta di ricordi – manoscritti, fotografie, ritagli di giornale – gelosamente custodita per anni. E oggi un po’ condivisa. “Davanti ai profughi all’inizio provavo un senso di superiorità, ma poi guardandoli in faccia mi sentivo piccolo piccolo – dice oggi Marsicano – come oggi, quando si aiutano gli immigrati che arrivano sulle nostre coste, ci si sente comandanti. Ma quando poi capisci quello che hanno patito, il fatto che hanno affrontato la morte pur di continuare a vivere, ti ridimensioni. Tu dici: io ho tutto, loro niente. Io vivo, loro sperano di vivere. E' un coraggio che non si dimentica”.
08 luglio 2009
(Fonte: https://parma.repubblica.it/dettaglio/cosi-salvammo-la-boat-people-diario-dal-vietnam-30-anni-dopo/1669936).
16) Profughi, 35 anni fa li volevamo
C’è stato un momento in Italia in cui i paesi e le famiglie si litigavano i profughi. Non nel senso che non li volevano, ma che facevano a gara per dar loro rifugio e sostegno. Accadeva 35 anni fa; a fine gennaio 1980 la Caritas padovana è costretta a comunicare che non ci sono abbastanza rifugiati: “È opportuno precisare che a Padova è possibile accogliere ancora una sola famiglia e che le offerte messe generosamente a disposizione – circa una ventina – non potranno venire utilizzate”.
Facciamo un passo indietro. È il 20 agosto 1979 quando tre navi da guerra dell’ottavo gruppo navale – la Vittorio Veneto, l’Andrea Doria e la Stromboli – entrano nel bacino di San Marco. Ad accoglierli ci sono ministri, il patriarca di Venezia e una folla festante e curiosa; a bordo, reduci da settimane di navigazione senza scalo, oltre all’equipaggio ci sono oltre 900 profughi vietnamiti, salvati dalla Marina Militare nel Mar Cinese Meridionale. Sui giornali li chiamano boat people: fuggono dalla repressione e dalle nuove guerre (contro la Cambogia e l’ex alleato cinese) del regime comunista, che è appena riuscito a cacciare gli americani e a riunificare il Paese.
Tanti cercano di fuggire via mare verso Thailandia, Malesia e Indonesia, spesso provvisti solo di imbarcazioni di fortuna: migliaia di loro, forse centinaia di migliaia, periscono tra le onde e a causa dei pirati, altri sono falcidiati nei campi profughi dalla fame e dalle malattie. Ma c’è anche chi ce la fa, come la giovane To Cam Hoa, che oggi è sposata e vive vicino a Treviso: “Il viaggio durò in totale due mesi, tra cui 15 giorni sulle coste della Malesia, vivendo situazioni drammatiche e selvagge, senza nessun mezzo per poter sopravvivere...”. Nei paesi vicini i profughi vengono infatti trattati con brutalità: la famiglia Hoa (12 persone tra cui nonno, bisnonna e tre bambini), viene obbligata assieme a oltre 100 profughi a risalire sulla barca con cui è arrivata, che viene rimorchiata al largo e quindi abbandonata alla deriva assieme a tante altre. “Tra un respingimento e l'altro siamo rimasti poi 15 giorni in mare aperto – ricorda oggi la donna – incastrati come sardine in piccole imbarcazioni col motore scassato e totalmente inadatte per la navigazione sull'oceano. Il tutto in condizioni pietose e affrontando i peggiori scenari possibili: minacce di morte, stupri, aggressioni di pirati, fame, sete, tempeste e persino episodi cannibalismo...”. Finché, a circa 300 chilometri da Singapore, viene raccolto dalle navi italiane, mandate dal governo in una missione di salvataggio sull’onda dell’indignazione popolare.
In quel momento infatti dei profughi vietnamiti si parla in tutto il mondo: intellettuali come Jean-Paul Sartre e Raymond Aron portano la questione davanti al presidente francese Giscard d’Estaing. Sono gli anni della Guerra Fredda e intorno alla questione si polarizzano anche le posizioni politiche: c’è chi considera i rifugiati alla stregua di traditori e collaborazionisti con il precedente regime, mentre altri vedono nell’emergenza un’occasione per sottolineare gli orrori del socialismo reale.
Sta di fatto che, anche per questo, nella Penisola scatta una vera e propria gara di solidarietà, in particolare nel Veneto allora ancora ‘bianco’. Il coordinamento regionale per gli aiuti viene stabilito a Padova, la città dove i profughi accolti sono più numerosi. In prima linea ci sono soprattutto la Croce Rossa Italiana e la Caritas: la risposta è immediata e solidale, come riportano i giornali di allora. In poco tempo vengono messi insieme 26 milioni e mezzo di lire tramite la raccolta di indumenti usati, che viene per la prima volta sperimentata come modalità di autofinanziamento, mentre una somma almeno altrettanto grande arriva dalle donazioni private. Poi ci sono offerte in natura, proposte di lavoro e di abitazioni: una famiglia si offre di costruire una casa a una famiglia viet, mentre una ditta si offre di arredarla. Una scolaresca raccoglie il necessario per comperare il motorino e una macchina per cucire agli ‘amici profughi’, mentre i dipendenti della banca Antoniana si tassano lo stipendio fino all’agosto dell’80, versando ogni mese i loro risparmi nel conto corrente della Caritas. Il settimanale diocesano la Difesa del popolo riporta addirittura che “Un’infermiera dell’ospedale, vedendo una signora viet senza orologio, s’è sfilato il suo e glielo mette al polso”, mentre i commercianti padovani inviano generi alimentari in occasione del Natale. Molti ospitano i rifugiati direttamente nelle loro case, non solo nel capoluogo: accade ad Arsego, San Giorgio delle Pertiche, Fratte, Zugliano... E gli aiuti non sono solo materiali: alla celebrazione del Têt (il capodanno vietnamita) del 1981, organizzata a Tencarola, prendono parte anche 300 italiani.
Adesso questa gara di solidarietà può fare addirittura sorridere, soprattutto se paragonata con le polemiche di attuali, che spesso danno l’immagine di un Veneto chiuso e poco solidale. Certo si tratta di situazioni profondamente diverse: allora si trattò di salvare e portare in Italia poche centinaia di persone nel corso di un’unica missione, mentre nei soli primi nove mesi del 2015 hanno attraversato il mare verso le nostre coste oltre 120.000 esseri umani. Totalmente diversa è inoltre la situazione politica e internazionale. A parte il “caso” boat people i rifugiati e i richiedenti asilo nel dopoguerra erano pochi, quasi solo europei e spesso intellettuali o comunque appartenenti alle classi borghesi e benestanti.
Oggi la divisione non è più tra Est e Ovest, comunismo o capitalismo, ma tra Nord e Sud, ricchi e poveri. Ai paragoni troppo facili è contraria anche To Cam Hoa: “Personalmente non voglio né l'etichetta di ‘ex immigrati vietnamiti virtuosi’, allo scopo di rafforzare la propaganda razzista, xenofoba e ‘anticomunista’, né sono con chi vorrebbe strumentalizzare la diaspora vietnamita in chiave ‘pro-immigrati’. Dal mio punto di vista sarebbe utile che i racconti non venissero volutamente spettacolarizzati eccessivamente, dando l'effetto di ‘storia strappalacrime’, o al fine di suscitare pietà e misericordia...”. Poi c’è anche una questione più profonda: forse nell’Italia e nel Veneto prima degli anni ’80 il benessere non aveva ancora fatto dimenticare un passato recentissimo fatto di povertà e di emigrazione, e la solidarietà era ancora un valore fortemente condiviso. Soprattutto però l’Italia di allora si sentiva finalmente un Paese ricco e pacificato, mentre quella di oggi si percepisce impoverita e in declino.
Daniele Mont D’Arpizio
17) Siria, Human Rights Watch: «16 bimbi ostaggio dell'Isis, uno decapitato»
PRIMO PIANO – ESTERI, Sabato 25 Agosto 2018
Macerie in Siria (foto d'archivio) Ci sarebbero anche 16 bambini tra i 30 civili rapiti dall'Isis un mese fa nel sud della Siria e uno di questi sarebbe stato decapitato. Lo afferma Human Rights Watch (Hrw) che sostiene che gli estremisti stanno usando il rapimento come «merce di scambio» nei negoziati con il governo siriano e la Russia, e ha definito il rapimento un «crimine di guerra». I bambini sono di età compresa tra i 7 e i 15 anni e sono stati rapiti insieme ad altri civili il 25 luglio scorso.
Il gruppo in ostaggio dei jihadisti è composto da «almeno 27 persone», secondo la denuncia di Human Rights Watch, ed è stato catturato quando una serie di attacchi dell'Isis contro la comunità drusa nella regione di Sweida ha fatto almeno 215 morti.
«Le vite dei civili non dovrebbero essere usate per baratti e l'Isis deve rilasciare subito tutti gli ostaggi», afferma il vice direttore dell'organizzazione per il Medio Oriente, Lama Fakih. Durante l'offensiva di luglio vennero catturate più di 30 persone e almeno due sono morte: un 19enne sarebbe stato decapitato a inizio agosto e poi sarebbe morta una donna di 65 anni.
Gli Stati Uniti intanto hanno avvertito la Russia di essere pronti a nuovi raid contro obiettivi del regime siriano nel caso in cui Damasco dovesse fare ricorso ad armi chimiche. Lo scrive l'agenzia di stampa Bloomberg, citando proprie fonti, secondo quanto rilanciato dall'agenzia di stampa russa Tass. Secondo Bloomberg, l'avvertimento sarebbe stato consegnato dal consigliere per la Sicurezza nazionale americano, John Bolton, nell'incontro che ha avuto due giorni fa a Ginevra con l'omologo russo Nikolai Patrushev.
L'agenzia sostiene che Washington «ha informazioni secondo cui il presidente siriano Bashar al Assad potrebbe usare armi chimiche mentre tenta di riconquistare uno delle ultime aree sotto il controllo dei ribelli», vale a dire Idlib, nel nordovest della Siria. In quel caso, ha fatto presente Bolton a Patrushev, gli Stati Uniti metterebbero in campo una risposta militare più forte rispetto ai precedenti raid nell'aprile del 2017 e nell'aprile del 2018.
Ultimo aggiornamento: 27 Agosto, 08:23
In Siria 16 bimbi ostaggio dell'Isis, uno sarebbe stato decapitato - Hanno tra i 7 e i 15 anni. Sequestrati il mese scorso
Ci sarebbero anche 16 bambini tra i 30 civili rapiti dall'Isis un mese fa nel sud della Siria e uno di questi sarebbe stato decapitato. Lo afferma Human Rights Watch che sostiene che gli estremisti stanno usando il rapimento come "merce di scambio" nei negoziati con il governo siriano e la Russia, e ha definito il rapimento un "crimine di guerra". I bambini sono di età compresa tra i 7 e i 15 anni e sono stati rapiti insieme ad altri civili il 25 luglio scorso.
Secondo le informazioni di Hrw, i jihadisti hanno decapitato uno dei ragazzini mentre una donna è morta durante il sequestro. Altre due donne sono riuscite a fuggire. Il governo siriano sta proseguendo con un'offensiva contro l'Isis nella provincia meridionale della Sweida e nelle aree adiacenti Damasco mentre i locali hanno formato un comitato negoziale per garantire il rilascio dei loro parenti.
(Continua su: http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2018/08/25/siria16-bimbi-ostaggi-isis1-decapitato_eedd3877-63b3-4ac1-b896-0fa199e6adae.html).
Ancora bambini che pagano per dei delinquenti, e pagano caro, perché uno sarebbe stato decapitato. Proviamo a percepire i pensieri di quel bambino che vede i preparativi per la propria esecuzione, immaginiamo cosa pensa, il terrore che prova nell’attesa della decapitazione, che i nostri bambini manco se la sognano… Al massimo la vedono sulla solita TV o nei fumetti, ma il mondo virtuale si scontrerà presto con la realtà che, anche se per ora è lontana, può avvicinarsi. E allora cosa succederà? Prepariamoci.
18) Rohingya morti, sette condanne
Dieci anni di prigione per un gruppo di militari birmani per il massacro in un villaggio della minoranza musulmana
Ultima modifica: 10 aprile 2018 21:18
Sette militari sono stati condannati a dieci anni di prigione in Myanmar per il massacro di un gruppo rohingya, in una sentenza senza precedenti dall'inizio della crisi che ha visto 700'000 membri della minoranza musulmana fuggire dal paese.
Quattro ufficiali e tre soldati sono stati silurati e condannati per il massacro in un villaggio di cui aveva riferito l'agenzia stampa Reuters.
L'annuncio arriva alla vigilia della decisione sulla sorte di due giornalisti della Reuters, arrestati proprio per la loro inchiesta sul massacro nel villaggio, che rischiano fino a 14 anni di prigione per possesso di documenti riservati.
Rohingya, l’Onu denuncia il genocidio e accusa Aung San Suu Kyi
Colpevoli sei generali, connivente l’ex paladina della libertà birmana. «Non ha usato la sua autorità morale». Responsabilità anche di Facebook: «Risposte lente all’odio»
di Guido Santevecchi, corrispondente a Pechino
Le violenze contro i Rohingya nel Myanmar della signora Aung San Suu Kyi, Nobel per la pace, secondo una commissione dell’Onu sono genocidio. E tra i colpevoli ci sono sei generali, compreso il comandante in capo dell’esercito nazionale, Min Aung Hlaing. Un anno esatto dopo l’offensiva che ha costretto a una fuga atroce verso il vicino Bangladesh almeno 700 mila Rohingya, le Nazioni Unite hanno pubblicato a Ginevra un rapporto che chiede il processo di fronte a una corte internazionale. E attacca anche Facebook per il ruolo giocato nella diffusione dell’odio contro la popolazione.
I Rohingya sono un gruppo etnico prevalentemente musulmano di un milione circa di persone, che abitano (abitavano) nel Rakhine, la regione più povera di Myanmar. Vennero dal Bengala (ora Bangladesh) ai tempi dell’Impero britannico delle Indie, ma non sono mai stati accettati dalla maggioranza buddista del Myanmar. Lo Stato non li considera cittadini e non garantisce loro né l’istruzione né cure sanitarie: «Oppressione dalla nascita alla morte», stabilisce la commissione di Ginevra. C’erano state ondate di violenza nel 2012 e nel 2016, ma quella cominciata il 25 agosto del 2017 è descritta come «una prevedibile e pianificata catastrofe».
Il dossier Onu chiama in causa anche Aung San Suu Kyi, che dal 2015 guida il governo civile del Paese: alla ex combattente per la libertà birmana è addebitato un silenzio impotente dettato dalla realpolitik, la sua volontà di arrivare alla riconciliazione con i militari che per anni l’avevano detenuta, la «rinuncia ad usare la sua autorità morale».
In questa situazione si è inserito il gruppo Arakan Rohingya Salvation Army, che si è radicalizzato e ora conduce una guerriglia. L’esercito ha giustificato l’offensiva nel Rakhine come reazione a una serie di azioni degli insorti. Ma secondo la commissione Onu, che ha raccolto prove e testimonianze nei villaggi dei Rohingya bruciati e bersagliati con armi pesanti, «le tattiche dell’esercito regolare sono state del tutto sproporzionate rispetto alla minaccia alla sicurezza». Soprattutto, «il livello dell’organizzazione della campagna militare, la scala della brutalità e della violenza, indicano un piano per la distruzione della minoranza che equivale al genocidio». Materia per la Corte penale internazionale dell’Aia.
Portare i generali del Myanmar alla sbarra di fronte al tribunale, come raccomanda il rapporto, non sarà però facile. Il Paese non ha sottoscritto lo Statuto di Roma che lo ha istituito e quindi servirebbe un voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove la Cina, che ha molti interessi nell’area confinante, potrebbe usare il suo potere di veto.
Il dossier presentato ieri è una sintesi di un lavoro durato mesi, 400 pagine di testimonianze sul fuoco indiscriminato contro i civili, stupri di massa, pulizia etnica. «I racconti che abbiamo ascoltato ci hanno marchiato per la vita», ha detto il capo della commissione, un ex magistrato indonesiano.
Il documento critica anche le Nazioni Unite, perché se il genocidio è stata la conclusione di decenni di soprusi sistematici nei confronti della minoranza musulmana, nello stesso tempo la comunità internazionale ha attuato una politica della «diplomazia silenziosa», fallendo nella difesa dei diritti umani. Una storia che si ripete. «L’approccio delle agenzie dell’Onu anche in Myanmar mostra pochi segni che la lezione sia stata appresa», conclude la requisitoria. In questa ricerca di colpe collettive è caduto pure Facebook: sul social network, tollerato o ispirato dalle autorità statali, ha avuto spazio l’odio contro i Rohingya da parte di predicatori di violenza. Facebook, osserva la commissione d’inchiesta, «ha risposto con lentezza e in modo inadeguato». Ieri Facebook ha annunciato di aver sospeso gli account di 20 persone e gruppi, compreso quello del generale Min Aung Hlaing.
27 agosto 2018
Costrette ad assistere all’uccisione dei figli e stuprate, il dramma delle donne Rohingya
Le drammatiche testimonianze di alcune sopravvissute alle brutali violenze dall’esercito del Myanmar contro la minoranza dei Rohingya, vittima di una vera e propria cacciata.
ASIA 2 OTTOBRE 2017 13:35 di Antonio Palma
Donne e bambini anche in tenerissima età picchiati ferocemente, umiliazioni in pubblico, stupri di gruppo, torture e mutilazioni. Sono le sconcertanti e atroci storie di violenze raccontate dai sopravvissuti alla terribile repressione condotta dall'esercito del Myanmar contro la minoranza etnica e religiosa dei Rohingya, definita dallo stesso Onu una pulizia etnica in piena regola per scacciare dal Paese, il nutrito gruppo musulmano in una regione a maggioranza buddista. Vittime di persecuzione e privazione della cittadinanza, a centinaia di migliaia ormai hanno lasciato i loro villaggi, superando il confine lasciandosi dietro case incendiate per rifugiarsi in campi profughi improvvisati nel vicino Bangladesh in quello che appare un esodo biblico.
"Sono stato violentata appena 13 giorni fa", ha raccontato la 20enne Aysha Begum ad Al Jazeera, ventenne arrivata in Bangladesh una settimana fa ormai esausta. "Stavamo cenando con le mie cognate quando i soldati sono arrivati nel nostro villaggio di Tami, nella città di Buthidaung; mi hanno strappato mio figlio dalle braccia calciandolo via come fosse un pallone" ha ricordato la ragazza. Poi le violenze sessuali su tutte le donne del villaggio durate ore. Infine la fuga durante la quale molti hanno perso la vita in ore e ore di cammino.
Storia comune a un'altra testimone scappata dalle violenze dell'esercito birmano, la 20enne Rajuma Begum, sopravvissuta al massacro del 30 agosto a Tula Toli, ritenuto uno dei più brutali atti di violenza dell'esercito del Myanmar. "Le donne sono state separate dai figli e dai mariti poi questi ultimi sono stati uccisi a coltellate e con la baionetta" ha raccontato la donna, aggiungendo: "Mi hanno accompagnato con altre quattro donne all'interno di una casa. Hanno strappato mio figlio dalle mie braccia, lo hanno buttato per terra e gli hanno tagliato la gola".
Poi lo stupro di gruppo durato ore e ore, infine i militari hanno picchiato a sangue le vittime lasciandole tramortite a terra nella casa a cui hanno dato fuoco. Lei è stata l'unica a svegliarsi poco dopo e a riuscire a scappare. "I militari hanno ucciso sette membri della mia famiglia. Mia madre, le mie due sorelle di 18 e 15 anni, entrambe violentate, mio fratello di 10 anni, mia cognata di 25 anni, suo figlio che aveva due anni e mezzo e mio figlio Mohammed Saddique, che aveva un anno e quattro mesi" ha rivelato la 20enne, aggiungendo: "È importante conoscere la nostra storia, cosa è successo a noi perché Rohingya. Vogliamo giustizia".
Un altro capitolo di morte, stupri, fame, violenza fisica e psicologica. Chi paga non sono i ricchi ed i medio borghesi, che bene o male vanno avanti, ma la povera gente: questi poi non hanno cittadinanza, si dovrebbe dire che non esistono, ma invece esistono eccome e gridano e urlano per loro e per i propri figli. È vero, sono lontani e noi non li sentiamo: leggiamo qualche notiziola moto edulcorata e vediamo qualche video che sfugge alla censura e che ci sbatte in faccia una realtà orrenda, una desolazione senza fine che lascia interdetti, ma poi tiriamo un sospiro e ci riprendiamo. Quelli, invece, continuano a urlare e nessuno li vuole sentire, nemmeno quel premio nobel, che sembrava un paladino di loro. Anche per questi il ricordo non basta: aiutiamoli come ci è possibile facendo bene attenzione a chi diamo i soldi; che non vadano a finire in associazioni che chiedono sempre facendo commuovere la gente e poi danno i soldi ai parenti dei politici che fanno finta di non sentire. Vergogna, vergogna, vergogna! Come è lontana la giustizia vera, non quella dei tribunali che assolvono per cavilli legali.


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